IL BLOG DI SILVIO TEDESCHI

Visualizzazione post con etichetta LA NOTA DI CASONI. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta LA NOTA DI CASONI. Mostra tutti i post

lunedì 12 aprile 2021

La difesa che Buschini non ha avuto

 

di Monia Lauroni


Mauro Buschini aveva bisogno di una difesa d’ufficio e non l’ha avuta. Chiariamola subito: di una cosa puoi avere bisogno perché ti serve, o perché ti serve sapere che qualcuno di quel bisogno per te si faccia nuncio simbolico. Questo perché, la difesa d’ufficio non è solo figura procedurale incardinata nei codici del diritto, ma è anche specchio fedele della considerazione che hai saputo far germinare in petto a chi hai fatto ricco: di credito politico, di appeal partitico e di gadget di governo dove e quando governare era impossibile. E vedere che Mauro Buschini non ha fatto eccezione nel clichet misero di un’Italia che sta sempre livellata e avvoltoia fra l’alloro degli untuosi e la polvere dei ridacchianti non ha giovato. Che non abbia giovato alla Ciociaria qui poco conta, non ci cadiamo nel tranellone dell’opportunismo territoriale un tanto al chilo, ma che non abbia giovato all’etica dell’amicizia fa specie davvero. Perché noi siamo ancora talmente cretini da credere, o sperare, che la frequentazione di medesimi luoghi, la condivisione di medesimi ideali, il perseguimento di medesimi obiettivi, alla lunga, possa generare qualcosa di più di una semplice convergenza di interessi. Con la gente che frequenti a bottega comune ti ci confronti e ti ci misuri. Di certe persone impari e conoscerne le sfumature, i gusti a tavola, le piccole debolezze, le fisime di tifoseria, i sudori quando fa caldo, i timbri vocali dei familiari quando chiamano, i grandi sogni nel cassetto e i tic quando il mainstream non ti mette in tacca di mira. E forse i limiti di una certa, grassa e crassa parte del Partito Democratico stanno tutti qua. Stanno spalmati grevi sulla battigia vetrosa di una eterna vocazione all’harakiri, al tafazzismo ottuso di chi non ha altri nemici se non quelli al suo interno, i Dem-oni di una creatura che dal Lingotto ad oggi non ha ancora capito il distinguo fra pluralismo e ‘caciara’. La buona fede di Mauro Buschini stava tutta genuinamente servita nell’ingordo entusiasmo che metteva nelle sue risposte ogni volta che gli parlavi del correntismo Dem. Tu andavi infida e serpente a suggerirgli che forse più che un esercizio di sana dialettica era un totem di satrapismo impunito e lui a ribadire sereno che l’anima del partito era esattamente in quell’essere in disaccordo praticamente su tutto. Era un’anima complicata e bella che faceva il nido negli elettroni impazziti del diritto che ogni bocca aveva a dire la sua, nel genio mistico di una cosa bella perché collegiale, condominiale ma fatta di quattro grosse pareti comuni. E mentre difendeva il principio generale sano in paradigma, ma tarlato dai satrapi, esattamente negli stessi giorni e senza alcun sentore, iniziava a perire di veleno, che di certa strategia è arma prediletta. Blue on blue, lo chiamano in gergo militare, fuoco amico. Quel codice con cui un cristo in divisa avvisa quelli che hanno giurato alla stessa bandiera che gli stanno facendo fioccare bombe sulla testa, a volte per sbaglio, a volte perché per evitare di perdere una guerra devi giocarti una battaglia e la pelle di un generale. Questioni di bandierine e di mappe che non possono guardare al singolo. Perché non vengano a cantarci la canzone scema per cui Mauro Buschini è andato a soccombere a presunte responsabilità etiche che hanno trovato condensa sul suo solo capo e tratto nel suo solo pugno. E non ci vengano a dire che Buschini è vittima tutto sommato sacrificabile di una “pressione mediatica” che ha dato miccia alla sua scelta di tirarsi fuori e salvare il partito da embolo certo. La pressione mediatica è l’effetto, non la causa, e la pressione, come tutte le cose Dem buone o pessime che siano, era pressione interna. Basta vedere chi non lo ha difeso, sentitamente, tignosamente,  per capire di cosa e di chi è vittima Buschini. E’ vittima della calcolosi di un partito che ha scelto una nuova linea e l’ha imposta a chi dalla (prima) linea si era tirato indietro. Perché se vedi una frana e fai in tempo ad evitarla ti salvi la vita, ma se vedi una frana e fai in tempo a farci finire sotto qualcun altro ti salvi qualcosa che in politica stacca la vita di sei lunghezze: ti salvi la carriera.


domenica 28 marzo 2021

In gita ad Anagni, facile facile

 

Di Giampiero Casoni

Piccola storia triste: in Italia vengono scoperte 30 milioni di dosi di AstraZeneca fuori computo, i Nas fanno tana ad Anagni e scoppia Casamicciola. Il mondo di media e governi a traino (ah no, è il contrario) si infiamma talmente tanto e talmente bene che ci si scorda di una cosa elementare come i rutti di Watson: che una cosa, prima di essere scoperta in un posto in quel posto deve arrivarci. E che forse come c’è arrivata è più grave del fatto che in quel posto ci stia. E veniamo a bomba, lepre lepre ché di preamboli qui non servono: 30milioni o giù di lì di dosi di vaccino, a contare 0,5 cc per dose come da indicazioni dei tizi anglo-svedesi, sono circa 15mila litri di liquido. Non di acqua Rocchetta, si badi bene, ma della sostanza più cruciale e gettonata sul pianeta degli ultimi cento anni, più della coca del Chapo, del petrolio dei vaccari texani e dell’acqua di Lourdes messi assieme. Mi viene incontro mio cugino Antonio nel darmi un’idea concettuale di dove possano accasarsi 15mila litri di liquido in questa parte di mondo: scartata l’idea di rubare il Fiorino dell’amico tamarro o di noleggiare duemilasettecentosei muli alpini in pensione, resta un’autocisterna di quelle che riforniscono di benzina i distributori. Un cataplasma di quelli a pieno carico di litri ne contiene esattamente 33 mila. Domanda per spezzare il narrato e creare un filino di suspence: c’è o non c’è un cacchio di protocollo per cui un carico di roba che non è esattamente Brodo Star appena entra in territorio italiano venga preso in affido e monitorato da forze dell’ordine o autorità preposte metro per metro per metro, in modo da chiedere magari al tizio che guida “Ndò vai co’sta roba”? I video di inizio anno ci dicono di si, i fatti di oggi ci consigliano di tenerci sul forse. Ad ogni modo la notizia è stata confezionata come se il bingo fosse avvenuto per magia, come se cioè quei 30 milioni d dosi si fossero teletrasportati ad Anagni dal tinello del dottor Spock. Quindi, a tirare le somme, i 30 milioni di dosi di vaccino AstraZeneca trovati dai Nas ad Anagni pare dietro soffiata italiana all’Europa che ha risoffiato all’Italia l’ordine di sguinzagliare i carabinieri hanno viaggiato fino al centro dello stivale in maniera perfettamente indolore ed impunita. Che siano arrivati via terra, in volo o su un cargo battente bandiera liberiana la sostanza non cambia. Non cambia perché l’Italia è quel paese dove per dare il diserbante alle melanzane nell’orto devi avere un patentino che attesti che puoi maneggiare quella roba. E’ il paese dove la tracciabilità di prodotti farmaceutici ed alimentari è cosa da urlo di Munch, con un carosello di bolle, certificazioni, scarichi, certificati, schermate on line e avvisi da mandare in pappa un cervello medio in sei minuti netti. Noi siamo quel paese dove nei frantoi la quota alimentare dell’olio d’oliva deve essere scaricata litro dopo litro dalla quantità che vuoi vendere in base al numero di familiari ed alla loro residenza, altrimenti arrivano gli omini con la divisa grigia e ti fanno il culo come un secchio. Da noi perfino una bistecca non te la sbrani più se non sai su quale prato la vacca ha spadellato la merda. Viene liscio pensare che in tema farmaci e in modalità pandemia questi protocolli siano tedeschissimi. Alla luce di questi preamboli sarebbe dovuto venir facile perciò chiedersi non tanto e non solo dove dovevano andare quei 30 milioni di dosi, ma come cazzo abbiano fatto ad arrivare. A farsi cioè un gita lunga più o meno 1500 chilometri, di cui quasi mille su suolo italiano, senza che nessuno sapesse che in giro c’era da controllare roba di valore economico, sanitario e sociale immenso. Roba che tra l’altro sul mercato nero ha un valore decuplicato e che dovrebbe essere sorvegliata come le chiappe di Cutolo buonanima. E siccome in Italia da tempo ormai facciamo tutti le domande sbagliate per non correre il rischio di ottenere le risposte giuste la cosa è finita in gloria. In gloria e con un giallo che ha fatto come l’ora legale, spostando in avanti l’orologio dei perché. Un giallo che è come quello della barzelletta: giallo davanti e marrone di dietro. E come sempre la parte marrone è quella che guarda in faccia a noi.

sabato 13 marzo 2021

Perché con Casadei se ne va un rocchettaro vero

 




Di Giampiero Casoni

Ci sono eresie che non di dicono ed eresie che diventano eretiche a non dirle. Ecco perché è meno strano di quanto sembri di acchitto pensare a Raoul Casadei come ad un perfetto tipo rock. Innanzitutto per un preambolo ovvio: quello per cui non sempre chi fa rock è rocchettaro nella polpa a seguire con un viceversa grosso come una casa (capito Sting?). Ma le categorie concettuali e le planate alla Pindaro c’entrano poco con la faccenda di Casadei che è stato più di quel che ha fatto o ha inteso fare. I concetti di base qui sono due: la Romagna e la balera. Che sono cose amene, correttesoft-piacione solo per i marziani e per quelli di Gallarate. Ci sarà un motivo per cui la Romagna è diventata l’archetipo della vita sanguigna, della carnalità sciolta e, non s’incazzino le frange prog,della mistica della fagiana no? In Romagna e fuor di luogocomunismo la gente o guida come Toretto, o mangia come Bud Spencer o balla come i dervisci rotanti. E’ gente che fa macchine da sogno, che ha dato il biberon a Dalla, Vasco e Liga. E’ gente che ha fatto del sangue che pompa un mantra e un marchio, spaziando da Ettore Muti alle coop rosse, senza grigi in mezzo. E Casadei, ex maestro elementare arrivato per tignaall’orchestra dello zio, quest’anima baccante e manichea l’ha dovuta un po’ piegare alle esigenze di un buonismo che avanzava di pari passo con la fama clamorosa che gli rotolava addosso. Tuttavia non è mai stato così scemo da ripudiarla completamente, un forlivese non può. Casadei era rock perché la sua era musica popolare, sanguinolenta e scopereccia come nessun’altra tranne appunto il rock. Non secondo le rotte di clichet esagerati, ma con l’eleganza sorniona che appartiene ai momenti del corteggiamento, al piacere di alludere, al prurito di starci ma solo per un giro di mazurca. Da questo punto di vista era antico, antico come il rock che con gli stereotipi sessisti di venia e un po’ tamarri ci ha campato cent’anni. Raoul ci ha fatto vincere contro Svezia e Germania prima ancora che sui campi di pallone. Ci ha fatto padri, nonni e cugini di almeno la metà della popolazione della Scandinavia e sorgi popolo ché solo per questo gli dovremmo tributare gli onori dei generali romani e dedicargli un busto al Pincio assieme a Mazzini e Cavour. Poi le balere dicevamo. E qui famo a capisse: una balera non è una calata circolare di cementina dove tizi bigi incrociano le zampe col mare di sfondo e mamme baffute sguinciano se la mano polipa una chiappa. Una balera è un’arena codificata di sudore e abbandono, è una versione dionisiaca e nana dei grandi luoghi di culto della musica. E’ un posto-concetto dove invece di farti anche di nafta agricola ti cali a Lambrusco, chassé e paillettes dai colori agghiaccianti fulminate dall’occhio di bue che ti segue implacabile con l’un-pa-pa del valzer che ti culla. Raoul è stato il direttore del circo più grande e spensierato e pieno di ottoni gracchiantidel mondo, e sotto quel tendone ci ha messo sorriso schietto e quella punta di cazzimma che ti sistema pure la vita. Ecco il perché di questa magica alchimia: perché Casadei era così lontano dal rock che, come tutti gli opposti, ha finito col fare il giro completo. E farlo per ritrovarsi esattamente sulla casella di quello da cui, per sciatte definizioni di categoria,avrebbe dovuto essere antipodo. Ed è da quella casella che il popolo del rock lo saluta, sincero senza deferenza come il Lambrusco, ruvido come i fratelli con cui non ti prendevi mai ma liscio come il liscio di questa storiaCome una musica cioè che non ci piaceva a mai ci piacerà, ma del cui profeta abbiamo sentito tutto il fascino. Liscio come piaceva a lui e a tutti quelli che cercano il groove senza sapere se viene dal tacabanda di un clarinetto o dal tremolo di una Fender.

domenica 7 marzo 2021

Sanremo secondo Casoni

 

Di Maneskin, Achille ed altri pontieri…              


Comunque la si voglia mettere, Sanremo resta il più grande vetro divisorio su cui si spacca l’Italia che ama masticare di pentagramma e faccende annesse. Divisorio non tanto fra chi ama la ‘buona musica’ e chi giubila le ‘canzonette’, quanto piuttosto fra chi invoca eternamente il passato come archetipo di tempi migliori e chi vede nel presente una renaissance o comunque l’unica realtà possibile, senza numi tutelari a cui appellarsi ogni volta che si imbraccia una chitarra. E’ un problema di anagrafe e di forma, fidatevi, non di centellinatura cosciente di ricette musicali, ed è problema di forma e di fuffa. Un esempio, anzi, l’esempio per antonomasia? L’inveterata abitudine della parte tromboneggiante dello stivale a prendere d’aceto se alloro o gradimento maggiorato vanno ad artisti che, in un certo senso, vengono accusati di ‘eresia’ e scopiazzamento a perdere, su tutti e sul caso di specie Maneskin e Achille Lauro che cià pure l’aggravante di essere blasfemo 53 anni dopo Symphaty for the Devil, cioè è castematore e pure in ritardo. E il loop è talmente loppeggiante che potevamo intuirlo prima ancora che Sanremo iniziasse, ancor prima che ad Amadeus venissero gli occhi da carassio: “Questi qui sono solo brutte ed impunite copie di giganti ineguagliabili, come osano le merde!”. Ora, smontare questi formaggiari in chiave di sol col vizio del retropensiero sarebbe fin troppo facile. Lo sarebbe a spadellare tutto il concertato sul piano del ragionamento cartesiano: c’è la musica buona e c’è la musica dimmerda, ovvio, ma il problema è dare cittadinanza ad entrambe, e Sanremo tutto sommato non è l’Isola di Wight, quindi dopo Albano questi so’ oro per come la vedo io. Chi scrive nei suoi momenti di ubbia considera tutto ciò che c’è stato dopo Yesssongs alla stregua del festival della ciaramella di Capracotta. Tuttavia nella vita bisogna essere onesti prima che puristi. Eforse, se fossimo onesti, dovremmo ammettere che l’eugenetica senatoriale che ci ha lardellato gli occhi per decenni forse ha ammazzato il rock più di quanto non abbiano fatto Tony Manero a fine ‘70 e l’autotune dei ceffi che fanno la trap oggi. E allora non ci resta che buttarla in parabola, in quella cosa cioè che perfino uno paziente come Gesù aveva capito che funzionava, perché spiegava facile la teologia a gente che cagliava ricotte e tirava su saraghi, come Alberto Angela ai geometri.All’inizio degli anni ‘80 il grande rock era morto, sepolto e putrescente, la fiamma languiva, la british new wawe incalzava, il post punk prendeva di puzza di pedalini e manovrava a tenaglia con la disco. Con quella e con la pallosissima canzone d’autore italiana, quella che nel nome dei testi e del cazzo di ‘significato sociale’ aveva ridotto la musica ad una litania monocorde e acusticheggiante da far grattare le palle pure ai gatti neri. Era morto il groove, la palla di fuoco che alla base dello stomaco mandava in acido panze, capocce e cuori tutti assieme e che ti faceva battere il piede su ogni 4/4. Pestarlo sulle mattonelle della camerettae pensare che i tuoi, la società e perfino i pesci rossi in vasca fossero gente strana da cui stare alla larga. Perché, come diceva Zavattini , si nasce incendiari e si muore pompieri, ed essere incendiari a quell’età era la sola cosa che ci desse senso alla vita, e datemi un amen. Poi a metà funerale arrivò l’heavy metal, che più che gli schemi ruppe timpani e che sicurissimamente aveva una cifra tecnica ed innovativa rasoterra rispetto ai grandi padri. Eppure l’HM un merito lo ebbe: quello di tenere viva la fiamma, magari in forma di fiammella, di evitare che si spegnesse del tutto e di consentire che tornasse a balenare alta ma non altissima con il grande innesto del grunge e le grandi reunion della metà degli ‘80. Sembrerà una forzatura, ma se oggi ci sono millenials grulli che amano i Pink Floyd, che stanno all’heavy metal come Dracula sta all’Avis, è anche grazie a quei ‘pontieri’ fabbri ferrai che non si fecero scrupolo di prendersi i vaffanculo di sette adolescenti su dieci e di sedici adulti su tre. Perciò, invece di inorridire nel vedere che Achille Lauro scimmiotta Gabriel (non Bowie, coglioni, Gabriel) e che i Maneskin sanremesi sono una brutta copia dei Greta Van Fleet che sono una bruttissima copia degli Zeppelin, ponetevi una domanda. Fatevela allo specchio dove poggiate il dopobarba figo all’aloe: a sentire noidopo Hendrix avremmo dovuto fare “macera”? Cioè buttare Rory Gallagher, Alvin Lee, Eddie Van Halen e Paul Gilbert dove la morosa butta gli involtini di nuvenia? ‘Sti ragazzotti lo sanno benissimo di non essere manco grumo di forfora di quelli grossi assai che voi invocate solo per farvi vedere ‘studiati’ tanto poi non andate oltre il film sui Doors ai Bellissimi di Rete 4. Però hanno un diritto e sanno di averlo: quello di dire la loro facendosi aiutare da modelli, quello di farsi strada usando strade già tracciate e arrivare dove non c'è la grandezza che fu, ma la bellezza che sempre sarà quando sali su un palco, pure a Capracotta. Come Eddie con Jimmy o Jeff, come Bon (Scott) dopo Paul (Rodgers), e come un qualunque cazzo di manovale che non sarà mai un architetto, ma che se gli dici che non vale una cicca ti butta nell’impastatrice. E datemi un amen cazzo.

venerdì 5 marzo 2021

Cosa insegnò il Bronx a Mario

 

 di Giampiero Casoni

 

Mario Lozano si era fatto le ossa nel Bronx, che non è sempre e solo quel posto trucido dove se non meni vieni menato e dove la scorza che ti fai basta per settantasette vite. No, nel Bronx Mario ci aveva vissuto un po’ come si fa nei giardini incolti ma che non vanno oltre serpentelli e cavallette, in quanto a fauna trucida. Anzi, per lui uscire da un ghetto a metà che neanche gli dava la patente di duro fu una benedizione. E trovarsi sparato nei training camp della Guardia Nazionale per essere assegnato al 69mo reggimento della 42ma divisione di fanteria ‘Rainbow’ diventò una forma di riscatto. Ma il destino per Mario aveva in serbo strane coincidenze. Il suo reggimento era costola scafata della famosa Irish Brigade, chiamata così perché da sempre composta quasi a pieno organico da irlandesi. Lozano con quelle terra verde e fegatosa non aveva un cazzo da spartire; lui era mezzo portoricano e mezzo italiano, siciliano per la precisione, un altro segno del destino. Fatto sta che l’Irlanda tornò a fare capoccella nella vita di Mario a inizio marzo del 2004. Come specialista per brandeggio e bipiede era arrivato a Mansour e si era ritrovato a presidiare una strada chiamata Route Irish, ma non la chiamavano così perché c’era la sua brigata. Era solo un code name per indicare che quella strada era il teatro dell’operazione Wolfhound, un levrierone particolarmente amato dagli scassacapoccia medievali d’Irlanda. Bisognava presidiare i 12 chilometri che separavano l’aeroporto di Baghdad dalla Green Zone. In mezzo pericolo, giochi di spie, ambasciatori che schizzavano verso i telefoni caldi come John Negroponte e informazioni che dovevano viaggiare veloci. Veloci perché lì non sapevi mai se l’auto che arrivava ti portava la cassa di Pepsi o una fagottata di tritolo attaccata allo sterno di qualche matto con Allah nel cuore e un detonatore nel pugno. Non lo sapeva neanche Mario, non lo sapeva esattamente quando avrebbe dovuto saperlo, cioè quando, dopo aver lasciato passare 29 veicoli senza neanche piegare l’indice, in punta al vivo di volata della sua M204B comparvero dei fari. Erano quelli della Toyota che portava Giuliana Sgrena in salvo e Nicola Calipari verso una meritatissima doccia. Lozano si ricordò di essere uno del Bronx, uno cioè che prima spara e poi pensa, e fece partire la raffica di fidanzamento, quella con cui i traccianti aggiustano il tiro verso il target. Dopo la prima, breve per mungere la parabola giusta, ne sparò un’altra, lunga. Undici proiettili calibro 7.62 che sfondarono tutto ciò che c’era di sfondabile nella Toyota: le bocchette alla base del cofano, il parabrezza, i sedili. E con essi la testa di Nicola Calipari che si era buttato addosso alla Sgrena per farle scudo. Lozano, quella sera alcheck-point 541,portava la divisa di gente che sapeva che quella sera sarebbe passata un’auto con un team dei servizi italiani, ma sparò lo stesso e senza un avvertitivo, se a corto di ordini o di raziocinio non lo sapremo mai. E uccise un uomo buono e un poliziotto coi controcazzi che come vice boss operativo del Sismi aveva già riportato a casa le due volontarie Simona Pari e Simona Torretta. Lozano ebbe un processo che finì come tutti i processi in cui la sovranità territoriale è discrimine fra verità e versione e l’immunità è assicurata dal potere autoritativo, cioè con un nulla di fatto. L’ambasciatore in Italia Mel Sembler, tipo bislacco, aveva una tesi tutta sua: era quella per cui la giustizia italiana tende a trainare la carretta delle sue tesi anche fuori dal recinto della legge con cui opera. Nello specifico disse: “i magistrati italiani sono famigerati per forzare queste leggi ai loro scopi”. Lo disse in una telefonata fatta alla Casa Bianca per blindare la posizione di Lozano, il mitragliere cresciuto nel Bronx che non sapeva scegliere fra impulso e freddezza. Non lo seppe fareammazzando Nicola Calipari che ieri quasi nessuno di noi, colpevolmente spersi fra Covid e Orietta Berti, ha pensato di ricordare.

giovedì 18 febbraio 2021

Con Cutolo non muoiono segreti, muore solo un mito banale

 di Giampiero Casoni

Il tremendo vizio dell’agiografia criminale italiana è quello di voler attribuire per forza ai capintesta delle male la mistica del destino segnato. E’ un po’ la “sindrome di Cristoforo Colombo”, per la quale si è portati a immaginarlo già bambino col moccio al naso intento a scrutare l’orizzonte marino col fare pensoso di chi pregusta una grandezza che sa che gli toccherà. E invece a sei anni Colombo era solo un botolo con ginocchia sbucciate pensieri botoleschi. E un po’ come Raffaele Cutolo, che nella vulgata di quanti lo resero archetipo del camorrista ‘d’onore’ è descritto come uno nato per fare il criminale assoluto, il totem da supremazia sgherra. Invece Cutolo al crimine ci arrivò per la più tamarra delle circostanze, per difendere sua sorella Rosetta dagli apprezzamenti di un guappo, con l’auto in panne e mentre si sentiva osservato in un momento di imbarazzo come può essere quello in cui il motore sputacchia e ti fa scendere l’autostima nelle rotule, faccenda mesta assai. Molti diranno che, essendo avvenuto questo episodio chiave ad Ottaviano, non poteva che essere prodromo, avvisaglia oscura della supremazia delinquenziale che sarebbe arrivata. Un altro errore: è quello dei toponimi criminogeni che danno birra alle aspirazioni dei futuri mammasantissima e che fanno quei salti temporali per cui da effetto di una serie di azioni finiscono per diventarne causa, humus obbligato. E’ Ottaviano ad essere “il paese di Cutolo”, non certo Cutolo diventò tale perché nacque ad Ottaviano, non in maniera così ineluttabile. La vita, la vita e il male, come Arendt intuì benissimo, sono molto più banali, anche se poi conducono verso abissi giganti. E peggiori proprio per questa loro genesi minimal. Cutolo era bracciante e figlio di lavandaia, era pretonzolo, poco prestante ed incazzereccio al limite dell’epilettico, quindi era l’uomo ideale per covare follia e fare di quella follia, col giusto carburante, una scintilla di innesco. Scintilla per comandare le ghenghe di disperati del Vesuviano. Solo che quando appena 22enne uccise Viscito lui non lo sapeva, che quella frenesia da pater familias gli potesse tornare buona per muovere orde di camorristi e smuovere frotte di potenti. Tanto lo inquietò, il suo Crimine Originale, che alla fine non resistette e si costituì 48 ore dopo. Ecco, con la sua consegna ai Carabinieri Cutolo entrò nel gorgo che ne avrebbe affinato gli istinti e disegnato la geografia di un crimine che lui avrebbe iniziato a vedere non più come tranello umorale, ma come sistema. E l’input, quella maledetta scintilla, ancora una volta glie lo diede un fatto causale. In carcere venne a questione con Antonio Spavone, un guappo di sciammeria grosso, rinomato e manolesta. Ma Spavone, per una serie di circostanze fortuite e forse intimidito dallo shining mattoide del competitor, non accettò il duello alla ‘molletta’. Non lo fece e consegnò alla storia quell’ometto che verseggiava goffe rime dolciastre e campestri e arringava ergastolani come un parroco. Perché uno che fa retrocedere un bullo di cemento come O’ Malommo deve per forza essere uno speciale, soprattutto in carcere dove la gamma dei sentimenti umani paga pegno alla caricaturalità assoluta. Insomma, in carcere entrò un cagnetto idrofobo e dal carcere uscì un boss, anche se in odor di mattane farlocche. Anzi, un Vangelo, come Cutolo amava definirsi scopiazzando i riti delle male agricole del Gargano e della ndrangheta dei potentissimi Piromalli. L’idea della NCO per quello che tutti iniziavano a chiamare O’ Prufessore fu fulminante. Disegnò, facendo leva sul carisma di protoscolarizzato e di uomo di fegato, una mala tutta speciale. Una mala che fosse verticistica, sacrale, patriottarda meridionale. Mala misterica, da quanto pareva misteriosa agli ottusi affiliati dei bracci promiscui dove Cutolo gettò il suo seme volpino. Una mala fatta di riti e di fedeltà incondizionata, che avesse i crismi del welfare interno, la saccenza di un diritto distorto, le gerarchie di un’armata ed abbrancasse i sogni di una intera generazione di vesuviani repressi dallo strapotere delle paranze metropolitane di Napoli. Di quel posto salmastro e vicolante cioè dove la mafia siciliana gettava ponti logistici. E affiliava gente come Zaza il Pazzo, Bardellino il bufalaro e pranzava da Lorenzo Nuvoletta a Poggio Vallesana, in mezzo a cavalli purosangue da centinaia di milioni. Ma la NCO aveva bisogno soprattutto di due cose: di truppe speciali e di un’idea di violenza che superasse la muscolarità convenzionale e un po’ farsesca dei guappi che ancora tenevano Porta Capuana nel cuore, gli scafi blu ad ormeggio e le antiche zumpate nel braccio. I killer di Cutolo uccidevano bene, tanto e col clamore mercatale di chi sa che un buco in testa è un proposito mantenuto, ma un cuore strappato dal petto è un segnale eterno. Da lì le tappe dell’orrore e di un continuo andirivieni dalle patrie galere: l’evasione da Aversa con la nitro, il sodalizio economico con Rosanova, la luogotenenza di Puca e Casillo, la fedeltà oranga di Barra, le strusciate a Nicolino Selis sul caso Moro, la guerra ai legittimisti di Alfieri O’ Ntufato e al cartello dei clan della Nuova Famiglia, il terremoto, gli appalti, il caso Cirillo, Scotti, Gava, i trasferimenti, il matrimonio, la paternità e tutto il reticolo di trame finissime che un plenipotenziario del male poteva gettare sul tavolo di una vita passata a dimostrare che uno zappaterra con dio nel taschino e il diavolo in petto poteva essere di più di quello in cui il Destino lo aveva incasellato alla nascita. E ora che Cutolo è morto, vecchio e malato, in odio ai protocolli di mafie piegate dal pentitismo e che in generazioni intere ha incarnato lo stereotipo tarocco del criminale coerente e silente, sorge un dubbio. E’ quello per cui lui su quell’immagine di detentore di grandi segreti ci abbia un po’ giocato. E che la sua pericolosità reiterata da pronunciamenti multipli in punto di diritto fosse diventata la sua maledizione. La macumba micidiale di chi lascia intendere che “se parlo io” crolla un sistema e che invece si limita ad atrofizzare una centralità che non ti appartiene più. E invece con la morte di Cutolo non c’è alcun petto che si alza in sospiro di sollievo come lui volle farci credere per anni e come noi abbiamo creduto sempre in fregola da mistica oscura. O’ Prufessore si strusciò al potere in un’epoca che, non foss’altro per questioni anagrafiche, non ha figliato eredità scomode. Con la morte di Cutolo non muore un’epoca romantica di crimine ortodosso e abbarbicato al suo codice. Semplicemente perché il crimine di codici non ne ha. Poi perché probabilmente Cutolo non ha mai dimenticato che la sua interminabile vita dietro le sbarre è nata da un’auto in panne, da un bullo chiacchierone e da una sorella da difendere. Ad Ottaviano, in un tiepido pomeriggio di settembre del 1963. Nella tomba ci va un criminale che ebbe giovinezza interrotta, grandezza accarezzata, betoniere di sangue sulle mani e compari insospettabili. E che alla più parte di loro e delle loro istanze equivoche è sopravvissuto. Arrivando a sopravvivere perfino al suo mito diabolico, e rimpiangendo forse una vita diversa a cui quel mito diede scacco.