IL BLOG DI SILVIO TEDESCHI

giovedì 18 febbraio 2021

Con Cutolo non muoiono segreti, muore solo un mito banale

 di Giampiero Casoni

Il tremendo vizio dell’agiografia criminale italiana è quello di voler attribuire per forza ai capintesta delle male la mistica del destino segnato. E’ un po’ la “sindrome di Cristoforo Colombo”, per la quale si è portati a immaginarlo già bambino col moccio al naso intento a scrutare l’orizzonte marino col fare pensoso di chi pregusta una grandezza che sa che gli toccherà. E invece a sei anni Colombo era solo un botolo con ginocchia sbucciate pensieri botoleschi. E un po’ come Raffaele Cutolo, che nella vulgata di quanti lo resero archetipo del camorrista ‘d’onore’ è descritto come uno nato per fare il criminale assoluto, il totem da supremazia sgherra. Invece Cutolo al crimine ci arrivò per la più tamarra delle circostanze, per difendere sua sorella Rosetta dagli apprezzamenti di un guappo, con l’auto in panne e mentre si sentiva osservato in un momento di imbarazzo come può essere quello in cui il motore sputacchia e ti fa scendere l’autostima nelle rotule, faccenda mesta assai. Molti diranno che, essendo avvenuto questo episodio chiave ad Ottaviano, non poteva che essere prodromo, avvisaglia oscura della supremazia delinquenziale che sarebbe arrivata. Un altro errore: è quello dei toponimi criminogeni che danno birra alle aspirazioni dei futuri mammasantissima e che fanno quei salti temporali per cui da effetto di una serie di azioni finiscono per diventarne causa, humus obbligato. E’ Ottaviano ad essere “il paese di Cutolo”, non certo Cutolo diventò tale perché nacque ad Ottaviano, non in maniera così ineluttabile. La vita, la vita e il male, come Arendt intuì benissimo, sono molto più banali, anche se poi conducono verso abissi giganti. E peggiori proprio per questa loro genesi minimal. Cutolo era bracciante e figlio di lavandaia, era pretonzolo, poco prestante ed incazzereccio al limite dell’epilettico, quindi era l’uomo ideale per covare follia e fare di quella follia, col giusto carburante, una scintilla di innesco. Scintilla per comandare le ghenghe di disperati del Vesuviano. Solo che quando appena 22enne uccise Viscito lui non lo sapeva, che quella frenesia da pater familias gli potesse tornare buona per muovere orde di camorristi e smuovere frotte di potenti. Tanto lo inquietò, il suo Crimine Originale, che alla fine non resistette e si costituì 48 ore dopo. Ecco, con la sua consegna ai Carabinieri Cutolo entrò nel gorgo che ne avrebbe affinato gli istinti e disegnato la geografia di un crimine che lui avrebbe iniziato a vedere non più come tranello umorale, ma come sistema. E l’input, quella maledetta scintilla, ancora una volta glie lo diede un fatto causale. In carcere venne a questione con Antonio Spavone, un guappo di sciammeria grosso, rinomato e manolesta. Ma Spavone, per una serie di circostanze fortuite e forse intimidito dallo shining mattoide del competitor, non accettò il duello alla ‘molletta’. Non lo fece e consegnò alla storia quell’ometto che verseggiava goffe rime dolciastre e campestri e arringava ergastolani come un parroco. Perché uno che fa retrocedere un bullo di cemento come O’ Malommo deve per forza essere uno speciale, soprattutto in carcere dove la gamma dei sentimenti umani paga pegno alla caricaturalità assoluta. Insomma, in carcere entrò un cagnetto idrofobo e dal carcere uscì un boss, anche se in odor di mattane farlocche. Anzi, un Vangelo, come Cutolo amava definirsi scopiazzando i riti delle male agricole del Gargano e della ndrangheta dei potentissimi Piromalli. L’idea della NCO per quello che tutti iniziavano a chiamare O’ Prufessore fu fulminante. Disegnò, facendo leva sul carisma di protoscolarizzato e di uomo di fegato, una mala tutta speciale. Una mala che fosse verticistica, sacrale, patriottarda meridionale. Mala misterica, da quanto pareva misteriosa agli ottusi affiliati dei bracci promiscui dove Cutolo gettò il suo seme volpino. Una mala fatta di riti e di fedeltà incondizionata, che avesse i crismi del welfare interno, la saccenza di un diritto distorto, le gerarchie di un’armata ed abbrancasse i sogni di una intera generazione di vesuviani repressi dallo strapotere delle paranze metropolitane di Napoli. Di quel posto salmastro e vicolante cioè dove la mafia siciliana gettava ponti logistici. E affiliava gente come Zaza il Pazzo, Bardellino il bufalaro e pranzava da Lorenzo Nuvoletta a Poggio Vallesana, in mezzo a cavalli purosangue da centinaia di milioni. Ma la NCO aveva bisogno soprattutto di due cose: di truppe speciali e di un’idea di violenza che superasse la muscolarità convenzionale e un po’ farsesca dei guappi che ancora tenevano Porta Capuana nel cuore, gli scafi blu ad ormeggio e le antiche zumpate nel braccio. I killer di Cutolo uccidevano bene, tanto e col clamore mercatale di chi sa che un buco in testa è un proposito mantenuto, ma un cuore strappato dal petto è un segnale eterno. Da lì le tappe dell’orrore e di un continuo andirivieni dalle patrie galere: l’evasione da Aversa con la nitro, il sodalizio economico con Rosanova, la luogotenenza di Puca e Casillo, la fedeltà oranga di Barra, le strusciate a Nicolino Selis sul caso Moro, la guerra ai legittimisti di Alfieri O’ Ntufato e al cartello dei clan della Nuova Famiglia, il terremoto, gli appalti, il caso Cirillo, Scotti, Gava, i trasferimenti, il matrimonio, la paternità e tutto il reticolo di trame finissime che un plenipotenziario del male poteva gettare sul tavolo di una vita passata a dimostrare che uno zappaterra con dio nel taschino e il diavolo in petto poteva essere di più di quello in cui il Destino lo aveva incasellato alla nascita. E ora che Cutolo è morto, vecchio e malato, in odio ai protocolli di mafie piegate dal pentitismo e che in generazioni intere ha incarnato lo stereotipo tarocco del criminale coerente e silente, sorge un dubbio. E’ quello per cui lui su quell’immagine di detentore di grandi segreti ci abbia un po’ giocato. E che la sua pericolosità reiterata da pronunciamenti multipli in punto di diritto fosse diventata la sua maledizione. La macumba micidiale di chi lascia intendere che “se parlo io” crolla un sistema e che invece si limita ad atrofizzare una centralità che non ti appartiene più. E invece con la morte di Cutolo non c’è alcun petto che si alza in sospiro di sollievo come lui volle farci credere per anni e come noi abbiamo creduto sempre in fregola da mistica oscura. O’ Prufessore si strusciò al potere in un’epoca che, non foss’altro per questioni anagrafiche, non ha figliato eredità scomode. Con la morte di Cutolo non muore un’epoca romantica di crimine ortodosso e abbarbicato al suo codice. Semplicemente perché il crimine di codici non ne ha. Poi perché probabilmente Cutolo non ha mai dimenticato che la sua interminabile vita dietro le sbarre è nata da un’auto in panne, da un bullo chiacchierone e da una sorella da difendere. Ad Ottaviano, in un tiepido pomeriggio di settembre del 1963. Nella tomba ci va un criminale che ebbe giovinezza interrotta, grandezza accarezzata, betoniere di sangue sulle mani e compari insospettabili. E che alla più parte di loro e delle loro istanze equivoche è sopravvissuto. Arrivando a sopravvivere perfino al suo mito diabolico, e rimpiangendo forse una vita diversa a cui quel mito diede scacco.



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