IL BLOG DI SILVIO TEDESCHI

venerdì 26 febbraio 2021

PARLARE È CONTAGIOSO

Ormai è chiaro, non sono servite le sfilate di camion militari cin le bare a farci riflettere, non sono servite le interviste ogni minuto a virologi e esperti vari, nulla è servito a farci riflettere sulla pericolosità del virus. Le abitudini, seppure ridimensionate, non le vogliamo perdere e facciamo del tutto per mantenerle senza sapere che facciamo male a noi stessi e a nessun altro. È passato un anno e ancora c'è chi fa l'indifferente come se nulla fosse accaduto, eppure di morti ce ne sono stati e se ne registrano ogni giorno, purtroppo non c'è vaccino che tenga se non supportato da una buona prevenzione, la colpa è di chi, in TV ancora continua a dire che bisogna riaprire tutto, bisogna tornare alle vecchie abitudini. Si parlo proprio di loro, quelli che per un misero consenso elettorale, cercano di accaparrarsi il voto dei ristoratori o comunque quelle categorie maggiormente danneggiate. Addirittura  c'è chi è al Governo e ancora da il cretino parlando a nome degli italiani, in teoria parlerebbe anche a nome mio ma, chi cazzo ti conosce, ma chi sei. Questo modo disonesto di fare politica, induce molti a pensare che il virus sia una bufala, una cazzata, un'invenzione e allora c'è chi, inconsapevole magari di essere asintomatico, esce, parla, abbraccia, conduce una vita regolare ma infetta. Si sono proprio taluni che incoscientemente trasmettono il virus e senza saperlo, spediscono in terapia intensiva o addirittura al cimitero i propri cari, i migliori amici o chi gli è stato vicino nel momento di un suo starnuto, colpo di tosse o una risata. Siamo diventati tutti dottori di noi stessi e decidiamo pure la diagnosi, e nel mentre in TV c'è chi ci da ragione e dice che non possiamo trascorrere la Pasqua in casa, ovvio bisogna festeggiare, stare assieme e a Pasquetta tutti insieme a fare le scampagnate. Fin quando questi cialtroni avranno il diritto di parola, continueremo a piangere morti e malati e ci illudiamo che questo virus sia effettivamente una cazzata. Io non voglio essere un eroe infettando gli altri ne voglio che mi infettano, preferisco attenermi alle raccomandazioni degli scienziati, gli unici che possono farlo, non intendo farmi influenzare sa questi quattro coglioni di politici irresponsabili che pensano di parlare anche a none mio. Mi meraviglio degli altrettanto coglioni che ancora abboccano e presi dalle difficoltà che inevitabilmente il virus crea, soprattutto dal punto di vista economico, abboccano. Mi meravigliano infine quelli che vanno in piazza a protestare per chiedere la riapertura e nessuno che dica, va bene, chiudete tutto e fateci sopravvivere, questa sarebbe l'unica protesta sensata, garantiteci sopravvivenza fin quando non avremo sconfitto in modo definitivo questo maledetto virus.   Buona fortuna a tutti. 

lunedì 22 febbraio 2021

Ultimo va in pensione, quello che ci ha trasmesso no

 di Giampiero Casoni

Per i millenials è roba da googolare così si rifinisce un dato fumoso, per i giovanissimi è arabo, e arabo resta perché non la puoi cantare in autotune. Eppure Crimor non è solo una parola, è un mantra, il mantra dell’Italia che picchia i suoi picchiatori più brutali di sempre, i viddani e il loro capoccia, Totò Riina. Tecnicamente è un acronimo, come Fiat buonanima, e sta per Criminalità Organizzata. Tuttavia quelli che ne fecero parte stavano dalla parte giustissima, che non è mai quella del crimine. Era una unità specializzata della prima sezione Ros dei Carabinieri, milanese di nascita e palermitana di consacrazione. Perché si, la Crimor arrivò a Palermo nell’anno in cui stare a Palermo era orribile anche se eri solo un postino. Era la Palermo che aveva appena seppellito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, spezzettati pochi mesi prima dai macellai corleonesi, annientati con le scorte in un mare di sangue, ossa e denti che avrebbero dovuto cancellare la Grande Stagione di Lotta ai ‘punciuti’ delle campagne rupestri sopra il capoluogo siciliano. Era la città in cui un’offensiva spaccona come mai nessun’altra aveva perfezionato la categoria di pensiero per cui a stare con lo Stato e a seguirne le leggi ci si perdeva tutto: vita, decoro, occasioni, ricchezza, prestigio, posizione sociale e benefit, perfino carisma in famigliail fondo della Repubblica. E invece successe una cosa che puntualmente i delinquenti tamarri non capiscono: lo Stato vide l’asticella del terrore piazzata troppo in alto, messa sfrontata a percularlo, e reagì, come i cristiani buoni dei luoghi comuni che è meglio non far incazzare perché poi sono i peggiori clienti. E a Palermo arrivò dunque Crimor. Avevano tutti nom de guerre, nomi falsi e un po’ sboroni, quasi a coprire le pudenda di vite normali, caratteri ordinari, sogni comuni e rotondi e braccia senza bicipiti abboffati dal massacro in palestra.Ricordiamoli: Arciere, Aspide, Barbaro, Nello, Omar, Ombra, Oscar, Pirata, Tempesta, Vichingo, Ninjia, Pluto, Solo e Parsifal (rip). A comandarli Ultimo. Un’accozzaglia di specialisti spicci e spaiati come calzini in un tiretto. Genteche aveva una sola cosa in comune, quella più importante: la testa dura di chi va a cimento per uscirne o col punto in tasca o col vestito buono addosso, quello che ti mettono nella cassa quando crepi. Ultimo in realtà si chiamava e si chiama Sergio, Sergio DeCaprio, carabiniere di mestiere e pazzoide di vocazione. Perché solo un pazzoide puo’ tampinare, cimiciare, puntare l’usta del capo assoluto della mafia per quattro mesi sapendo due cose: che la preda è predatore nato e che le tane in cui abita sono millemila, millemila come i suoi scherani, guardaspalle, galoppini e ciambellani. Tutta gente abituata a dare la morte o quanto meno a conoscerne i tratti confidenziali. E questo con la dimestichezza che un uomo in divisa puo’ aver studiato o corteggiato sporadicamente, ma mai come loro, mai come i viddani che parevano nati per affratellarsi alla Puttana con la Falce. Fu Ultimo a portare a termine la missione, lui e la sua squadra, i matti della Crimor con lo stemma sborone come loro, a forma di cobra attorcigliato ad una bomba a mano. Fu lui a mettere le manette alla Bestia, lui a portare la croce di una mancata perquisizione del covo che gli fece ombra aorgoglio e foglio matricola per anni. Quel covo stanato da una frase quasi amorevole del Capo mannaro, che diceva sempre di avere ‘la Noce nel cuore”. Era il quartiere della Noce, guardato a vista come un fortino dai fedelissimi Ganci. Lui che ha vissuto una vita col mephisto in testa, anche quando da carabiniere è passato dalle male campagnole alla tutela del verde che alla campagna dà sostanza. Lui che, in quei quattro mesi sfolgoranti e di riscatto, ci ha insegnato una cosa che ci resterà dentro anche oggi che va in pensione. E cioè che con le persone giuste al fianco nessuno resta per sempre in ginocchio. E qui l’autotune ci starebbe benissimo raga.

giovedì 18 febbraio 2021

Con Cutolo non muoiono segreti, muore solo un mito banale

 di Giampiero Casoni

Il tremendo vizio dell’agiografia criminale italiana è quello di voler attribuire per forza ai capintesta delle male la mistica del destino segnato. E’ un po’ la “sindrome di Cristoforo Colombo”, per la quale si è portati a immaginarlo già bambino col moccio al naso intento a scrutare l’orizzonte marino col fare pensoso di chi pregusta una grandezza che sa che gli toccherà. E invece a sei anni Colombo era solo un botolo con ginocchia sbucciate pensieri botoleschi. E un po’ come Raffaele Cutolo, che nella vulgata di quanti lo resero archetipo del camorrista ‘d’onore’ è descritto come uno nato per fare il criminale assoluto, il totem da supremazia sgherra. Invece Cutolo al crimine ci arrivò per la più tamarra delle circostanze, per difendere sua sorella Rosetta dagli apprezzamenti di un guappo, con l’auto in panne e mentre si sentiva osservato in un momento di imbarazzo come può essere quello in cui il motore sputacchia e ti fa scendere l’autostima nelle rotule, faccenda mesta assai. Molti diranno che, essendo avvenuto questo episodio chiave ad Ottaviano, non poteva che essere prodromo, avvisaglia oscura della supremazia delinquenziale che sarebbe arrivata. Un altro errore: è quello dei toponimi criminogeni che danno birra alle aspirazioni dei futuri mammasantissima e che fanno quei salti temporali per cui da effetto di una serie di azioni finiscono per diventarne causa, humus obbligato. E’ Ottaviano ad essere “il paese di Cutolo”, non certo Cutolo diventò tale perché nacque ad Ottaviano, non in maniera così ineluttabile. La vita, la vita e il male, come Arendt intuì benissimo, sono molto più banali, anche se poi conducono verso abissi giganti. E peggiori proprio per questa loro genesi minimal. Cutolo era bracciante e figlio di lavandaia, era pretonzolo, poco prestante ed incazzereccio al limite dell’epilettico, quindi era l’uomo ideale per covare follia e fare di quella follia, col giusto carburante, una scintilla di innesco. Scintilla per comandare le ghenghe di disperati del Vesuviano. Solo che quando appena 22enne uccise Viscito lui non lo sapeva, che quella frenesia da pater familias gli potesse tornare buona per muovere orde di camorristi e smuovere frotte di potenti. Tanto lo inquietò, il suo Crimine Originale, che alla fine non resistette e si costituì 48 ore dopo. Ecco, con la sua consegna ai Carabinieri Cutolo entrò nel gorgo che ne avrebbe affinato gli istinti e disegnato la geografia di un crimine che lui avrebbe iniziato a vedere non più come tranello umorale, ma come sistema. E l’input, quella maledetta scintilla, ancora una volta glie lo diede un fatto causale. In carcere venne a questione con Antonio Spavone, un guappo di sciammeria grosso, rinomato e manolesta. Ma Spavone, per una serie di circostanze fortuite e forse intimidito dallo shining mattoide del competitor, non accettò il duello alla ‘molletta’. Non lo fece e consegnò alla storia quell’ometto che verseggiava goffe rime dolciastre e campestri e arringava ergastolani come un parroco. Perché uno che fa retrocedere un bullo di cemento come O’ Malommo deve per forza essere uno speciale, soprattutto in carcere dove la gamma dei sentimenti umani paga pegno alla caricaturalità assoluta. Insomma, in carcere entrò un cagnetto idrofobo e dal carcere uscì un boss, anche se in odor di mattane farlocche. Anzi, un Vangelo, come Cutolo amava definirsi scopiazzando i riti delle male agricole del Gargano e della ndrangheta dei potentissimi Piromalli. L’idea della NCO per quello che tutti iniziavano a chiamare O’ Prufessore fu fulminante. Disegnò, facendo leva sul carisma di protoscolarizzato e di uomo di fegato, una mala tutta speciale. Una mala che fosse verticistica, sacrale, patriottarda meridionale. Mala misterica, da quanto pareva misteriosa agli ottusi affiliati dei bracci promiscui dove Cutolo gettò il suo seme volpino. Una mala fatta di riti e di fedeltà incondizionata, che avesse i crismi del welfare interno, la saccenza di un diritto distorto, le gerarchie di un’armata ed abbrancasse i sogni di una intera generazione di vesuviani repressi dallo strapotere delle paranze metropolitane di Napoli. Di quel posto salmastro e vicolante cioè dove la mafia siciliana gettava ponti logistici. E affiliava gente come Zaza il Pazzo, Bardellino il bufalaro e pranzava da Lorenzo Nuvoletta a Poggio Vallesana, in mezzo a cavalli purosangue da centinaia di milioni. Ma la NCO aveva bisogno soprattutto di due cose: di truppe speciali e di un’idea di violenza che superasse la muscolarità convenzionale e un po’ farsesca dei guappi che ancora tenevano Porta Capuana nel cuore, gli scafi blu ad ormeggio e le antiche zumpate nel braccio. I killer di Cutolo uccidevano bene, tanto e col clamore mercatale di chi sa che un buco in testa è un proposito mantenuto, ma un cuore strappato dal petto è un segnale eterno. Da lì le tappe dell’orrore e di un continuo andirivieni dalle patrie galere: l’evasione da Aversa con la nitro, il sodalizio economico con Rosanova, la luogotenenza di Puca e Casillo, la fedeltà oranga di Barra, le strusciate a Nicolino Selis sul caso Moro, la guerra ai legittimisti di Alfieri O’ Ntufato e al cartello dei clan della Nuova Famiglia, il terremoto, gli appalti, il caso Cirillo, Scotti, Gava, i trasferimenti, il matrimonio, la paternità e tutto il reticolo di trame finissime che un plenipotenziario del male poteva gettare sul tavolo di una vita passata a dimostrare che uno zappaterra con dio nel taschino e il diavolo in petto poteva essere di più di quello in cui il Destino lo aveva incasellato alla nascita. E ora che Cutolo è morto, vecchio e malato, in odio ai protocolli di mafie piegate dal pentitismo e che in generazioni intere ha incarnato lo stereotipo tarocco del criminale coerente e silente, sorge un dubbio. E’ quello per cui lui su quell’immagine di detentore di grandi segreti ci abbia un po’ giocato. E che la sua pericolosità reiterata da pronunciamenti multipli in punto di diritto fosse diventata la sua maledizione. La macumba micidiale di chi lascia intendere che “se parlo io” crolla un sistema e che invece si limita ad atrofizzare una centralità che non ti appartiene più. E invece con la morte di Cutolo non c’è alcun petto che si alza in sospiro di sollievo come lui volle farci credere per anni e come noi abbiamo creduto sempre in fregola da mistica oscura. O’ Prufessore si strusciò al potere in un’epoca che, non foss’altro per questioni anagrafiche, non ha figliato eredità scomode. Con la morte di Cutolo non muore un’epoca romantica di crimine ortodosso e abbarbicato al suo codice. Semplicemente perché il crimine di codici non ne ha. Poi perché probabilmente Cutolo non ha mai dimenticato che la sua interminabile vita dietro le sbarre è nata da un’auto in panne, da un bullo chiacchierone e da una sorella da difendere. Ad Ottaviano, in un tiepido pomeriggio di settembre del 1963. Nella tomba ci va un criminale che ebbe giovinezza interrotta, grandezza accarezzata, betoniere di sangue sulle mani e compari insospettabili. E che alla più parte di loro e delle loro istanze equivoche è sopravvissuto. Arrivando a sopravvivere perfino al suo mito diabolico, e rimpiangendo forse una vita diversa a cui quel mito diede scacco.



martedì 16 febbraio 2021


 

Lockdown si Lockdown no

Ormai è chiaro, come in politica, anche nell'ambiente sanitario ci sono le correnti, tecnici, clinici, esperti, virologi, immunologi, professori (tutti all'estero) aspiranti Ministri, Sottosegretari, aspiranti direttori di CTS, Istituti Superiori, ecc. ecc. Ogni giorno ascoltiamo migliaia di dichiarazioni, da un anno a questa parte abbiamo assorbito tutte le terminologie e le dinamiche di un'epidemia, potremmo sostenere anche noi un'esame, da più di un anno siamo costretti da questo maledetto virus a guardare la TV e aspettare i dati serali sull'andamento e nel frattempo in TV c'è sempre qualcuno che ci spiega cause, effetti e cure. Ovviamente le TV non fanno nulla per semplificare ma infittiscono le presenze anzi, in alcuni casi, ci propongono anche negazionisti, medici santoni e improvvisati cari. Concludiamo poi con la politica che deve per forza di cose, stare a ciò che i medici dicono e allora il caos è completo, si sono susseguiti numerosi DPCM, poi abbiamo iniziato a colorare le regione e, morale della favola, stiamo punto e a capo. Le varianti sembrano quasi uba maledizione divina, come ne scopri una, ne esce un'altra, una specie di esercito nascosto, pronto a intervenire quando si sta per perdere la guerra. In pratica, siamo in mezzo una strada, la situazione è grave, molti iniziano a morire anche di altre malattie, tanti di fame, tanti rischiano di farla finita a causa della perdita di lavoro, discorso a parte per gli autonomi, ormai sull'orlo del fallimento. Il primo Lockdown aveva dato i suoi frutti, sembrava che tutto stesse procedendo bene, il decisionismo iniziale ci aveva fatto ben sperare, poi con l'avvento di tanti predicatori e politici irresponsabili, complice la bella stagione, tutto è saltato, sembrava quasi un'estate normale ma, la seconda ondata era in agguato. È arrivata e ha fatto danni, siamo punto e a capo, nel frattempo bisognava garantire un Natale sereno e 

Il Corriere che non corre più

 di Giampiero Casoni

 

Una agghiacciante sequenza di disinformazione su cui riflettere: l'ha impalcata il Corsera in meno di 16 ore. Non tanto per la cappellata in sé, quelle prima o poi le prendono tutti e, entro certi limiti di decenza, ci stanno. No, quello che è agghiacciante è la strategia con cui le cazzate vengono si ammesse, ma poi emendate, sistemate, limate e incasellate in manovra corale. Come a narcotizzarle con cambi di passo che tangheri argentini scansatevi proprio. Vediamo: nella giornata di ieri il Corsera ha rilanciato la sparata solipsistica di Ricciardi sul lockdown nazionale, legittimamente ripresa da tutti, i colleghi scienziati che non vogliono rimanere indietro nel ruolo di mastri paposciari e i media che vogliono arrivare almeno a filo di new. Anche perché una volta in Italia si diceva “se lo dicono quelli di via Solferino è vero”. Poi trova il tempo per la puttanata assoluta di Brunetta che da neo ministro vorrebbe i ‘fannulloni’ via dallo smart working. Tempo tre ore e si accorge della boiata: Brunetta lo disse in un vecchio audio del 22 giugno 2020 di quando non era in Esecutivo Draghi e di quando il virus mollava la presa. Perciò si fa gloriosa retromarcia e ci si scusa. Ma nel frattempo la supercazzola è diventata virale sul web e appannaggio di quasi tutte le testate on line, incluso Scanzi che a furia di dirsi che è bravo si è scordato essere bravo cosa significa.Poi a via Solferino, dove una volta sulle notizie ci facevi i telegiornali interi, “si accorgono” che forse Ricciardi ha parlato a nome suo e non del governo. Quindi, in cagotto da discredito istituzionale già minato dal caso Brunetta, fanno il capolavoro. Cioè vanno in summit di redazione via web lepri lepri elanciano tre news a fagiolo e in sequenza mattutina per lavarsi la faccia: nella prima una bio smart di Ricciardi tutta incentrata sul titolo paraculo “Gira voce che la cannonata mediatica delle ultime ore sia frutto di puro nervosismo. Ricciardi pensava infatti di diventare ministro”. Prima era un serio scienziato che sosteneva una tesi hard non ancora avallata dal governo, oggi è quasi diventato uno ‘nvidioso che le spara grosse “così imparano a non chiamarmi, ste merde”. Nella seconda chiedono sponda al bigio e defilato Ippolito, direttore dello Spallanzani, per ridimensionare (ma senza cassarla, potrebbe tornare utile) la strategia del lockdown locale e sputacchiare l’ovvietà per cui gli esperti dovrebbero parlare solo della linea del governo che li ingaggia e non di ciò che pensano a titolo personale. Poi con la terza il fiocco di panna sul maritozzo: suggellano il cambio di passo con la solita fonte a Palazzo Chigi, mezza rabbonita ma ancora incazzata per il caso Brunetta e per la fuga in avanti di Ricciardi. Fonte che spiffera la new strategy di Draghi sulle zone rosse mirate e sulle vaccinazioni in caserme e palestre, cioè che sconfessa Ricciardi. La new è on line assieme alle altre da circa 55 minuti mentre scrivoIn tutto questo, agganciati alle tastiere pc di questo serraglio psicotico e pronti ad aprire ogni link con il sistema nervoso in pappa, ci siamo noi. Io non so più come insultarvi.