di Giampiero Casoni
Mario Lozano si era
fatto le ossa nel Bronx, che non è sempre e solo quel posto trucido dove se non
meni vieni menato e dove la scorza che ti fai basta per settantasette vite. No,
nel Bronx Mario ci aveva vissuto un po’ come si fa nei giardini incolti ma che
non vanno oltre serpentelli e cavallette, in quanto a fauna trucida. Anzi, per
lui uscire da un ghetto a metà che neanche gli dava la patente di duro fu una
benedizione. E trovarsi sparato nei training camp della Guardia Nazionale per
essere assegnato al 69mo reggimento della 42ma divisione di fanteria ‘Rainbow’
diventò una forma di riscatto. Ma il destino per Mario aveva in serbo strane
coincidenze. Il suo reggimento era costola scafata della famosa Irish Brigade,
chiamata così perché da sempre composta quasi a pieno organico da irlandesi.
Lozano con quelle terra verde e fegatosa non aveva un cazzo da spartire; lui
era mezzo portoricano e mezzo italiano, siciliano per la precisione, un altro
segno del destino. Fatto sta che l’Irlanda tornò a fare capoccella nella vita
di Mario a inizio marzo del 2004. Come specialista per brandeggio e bipiede era
arrivato a Mansour e si era ritrovato a presidiare una strada chiamata Route
Irish, ma non la chiamavano così perché c’era la sua brigata. Era solo un code
name per indicare che quella strada era il teatro dell’operazione Wolfhound, un
levrierone particolarmente amato dagli scassacapoccia medievali d’Irlanda.
Bisognava presidiare i 12 chilometri che separavano l’aeroporto di Baghdad
dalla Green Zone. In mezzo pericolo, giochi di spie, ambasciatori che
schizzavano verso i telefoni caldi come John Negroponte e informazioni che
dovevano viaggiare veloci. Veloci perché lì non sapevi mai se l’auto che
arrivava ti portava la cassa di Pepsi o una fagottata di tritolo attaccata allo
sterno di qualche matto con Allah nel cuore e un detonatore nel pugno. Non lo
sapeva neanche Mario, non lo sapeva esattamente quando avrebbe dovuto saperlo,
cioè quando, dopo aver lasciato passare 29 veicoli senza neanche piegare
l’indice, in punta al vivo di volata della sua M204B comparvero dei fari. Erano
quelli della Toyota che portava Giuliana Sgrena in salvo e Nicola Calipari
verso una meritatissima doccia. Lozano si ricordò di essere uno del Bronx, uno
cioè che prima spara e poi pensa, e fece partire la raffica di fidanzamento,
quella con cui i traccianti aggiustano il tiro verso il target. Dopo la prima,
breve per mungere la parabola giusta, ne sparò un’altra, lunga. Undici
proiettili calibro 7.62 che sfondarono tutto ciò che c’era di sfondabile nella
Toyota: le bocchette alla base del cofano, il parabrezza, i sedili. E con essi
la testa di Nicola Calipari che si era buttato addosso alla Sgrena per farle
scudo. Lozano, quella sera alcheck-point 541,portava la divisa di gente che sapeva che quella sera sarebbe
passata un’auto con un team dei servizi italiani, ma sparò lo stesso e senza un
avvertitivo, se a corto di ordini o di raziocinio non lo sapremo mai. E uccise
un uomo buono e un poliziotto coi controcazzi che come vice boss operativo del
Sismi aveva già riportato a casa le due volontarie Simona Pari e Simona
Torretta. Lozano ebbe un processo che finì come tutti i processi in cui la
sovranità territoriale è discrimine fra verità e versione e l’immunità è
assicurata dal potere autoritativo, cioè con un nulla di fatto. L’ambasciatore
in Italia Mel Sembler, tipo bislacco, aveva una tesi tutta sua: era quella per
cui la giustizia italiana tende a trainare la carretta delle sue tesi anche
fuori dal recinto della legge con cui opera. Nello specifico disse: “i magistrati italiani sono famigerati per
forzare queste leggi ai loro scopi”. Lo disse in una telefonata fatta alla Casa
Bianca per blindare la posizione di Lozano, il mitragliere cresciuto nel Bronx
che non sapeva scegliere fra impulso e freddezza. Non lo seppe fareammazzando
Nicola Calipari che ieri quasi nessuno di noi, colpevolmente spersi fra Covid e
Orietta Berti, ha pensato di ricordare.
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