di Giampiero Casoni
Tutta “colpa” di Umberto II. Fu proprio lui infatti, il Re di Maggio pennellone e allampanato, a mettere in moto suo malgrado la macchina della confusione. Una macchina che ancora oggi ci vede essere l’unico popolo sul pianeta, fra quelli occidentali avanzati, a non aver contezza giudiziaria esatta di una sua tragedia nazionale ma ad averne perfetta e rotonda contezza morale.Chiariamola: nel maggio del 1946 in Italia la partita concettuale era secca: monarchia o repubblica, che non erano solo due forme di governo. Erano l’una archetipo dei guai immensi da cui l’Italia usciva e l’altra sintesi dei guai che l’Italia intendeva mettersi alle spalle. E in mezzo c’erano burocrazia a notabilato fascisti che andavano comunque mantenuti, perché un apparato statale intero non è che lo reinventi in sei mesi nel nome del fuoco sacro della libertà riassaggiata, sennò col fuoco ti ci scotti e parti democratico ma zoppo. Roba delicatissima insomma, che prescindeva i meccanismi di governo e abbracciava mistica della rinascita e interessi sovranazionali fortissimi. E per quanto frastornato per indole e ruolo, Umberto di Savoia questo lo sapeva benissimo. Quelli col casino di caccia alla Venaria saranno stati pure coglioni, ma coglioni studiati. La sua idea per assicurarsi che l’Italia del referendum scegliesse di nuovo il trono passava perciò per una sola parola. Per quella che da sempre è la carota più grossa dei popoli reduci da stagioni dell’orrore, e la parola era ‘amnistia’. Umberto voleva assicurarsi una fetta di consenso determinante alla sopravvivenza della monarchia sabauda promulgando il perdono per tutti i criminali di guerra. Inutile dire che sulla sponda avversa fiutarono subito il pericolo. Il naso più fino fu quello di De Gasperi, che come capo del governo si fece legare per matto e bloccò il provvedimento. Attenzione, nei crimini previsti dall’amnistia rientravano quelli di guerra e il collaborazionismo, sia de destra che di sinistra. A varare il provvedimento ci pensò il 22 giugno del '46 un altro naso fino, naso a tre narici avrebbe detto Guareschi: quello di Palmiro Togliatti. Il referendum ormai si era tenuto, la monarchia era stata espulsa come un calcolo e non c’era più pericolo che i Savoia vendemmiassero voti di simpatia dagli ex criminali. Ma quei voti facevano gola comunque, e la lusinga di incamerarli fece fregola e nidoanche in seno alla neonata democrazia. La formula è quella solita di quando i governi devono giustificare un incasso di consenso mettendogli addosso il vestito buono dei grandi sistemi etici: la ‘pacificazione nazionale’. Il provvedimento di Togliatti fu impopolare anche in seno al Pci ed agli ambienti partigiani che volevano teste fasciste da tagliare. Molti per protesta ripresero le armi e si intrupparono di nuovo per boschi. Sta di fatto che l’amnistia Togliatti una cosa la bloccò certamente: la possibilità che venissero perseguiti in punto di diritto e consegnati i criminali di guerra italiani nei Balcani: sia i generaloni che fecero scempi a Belgrado, Roatta e Robotti su tutti, che i comunisti filo titini che diedero vita o supporto agli orrori carsici delle foibe. Insomma, tutto il cucuzzaro di macellai, da qualunque parte stessero, si salvò per una condotta internazionale che vide Togliatti preservare quelli che allora erano figli della rivoluzione socialista tout court. L’Unione Sovietica e Tito in quei mesi erano ancora amiconi. Perciò l’orso russo nel maresciallo ci vedeva ancora un dito infilato dritto nel culo dell’occidente, dito sovietico, non slavo, ottima cosa per i nuovi assetti geopolitici del dopo guerra. E Togliatti era la mano che guidava quel dito. Molti anni dopo, nel 1992, un coraggioso procuratore, Giuseppe Pititto, provò ad incardinare un fascicolo contro i criminali di guerra infoibatori ancora in vita, fra cui Oscar Piskulic. Gli andò malissimo: il fascicolo non ottenne rogatorie e nel 2004 la cosa si smosciò come un soprabito senza stampella malgrado battaglie bellissime ed encomiabili di una nicchia di parlamentari di ogni schieramento. Due i motivi: molti dei fiancheggiatori italiani di Piskulic avevano beneficiato dell’amnistia Togliatti e di quella Pella del ‘53 e non erano perseguibili per reati ‘sanati’. In più, il Pm venne accusato di voler imbastire un ‘processo alla resistenza’ (fonte Arrigo Petacco, L’Esodo). Il procedimento venne archiviato nel marzo del 2004. In straordinaria concatenazione, con la legge del 30 giugno di quello stesso anno venne istituito il Giorno del Ricordo. Giorno che vide la prima celebrazione, fra la ruvidezza di Mirko Tremaglia, le bonacciosità di Casini e l’empatia sincera di Ciampi, il 10 febbraio del 2005. Come sempre, non essendo arrivati a fare giustizia arrivammo a fare simbologia. E oggi a scuola, a studiare Umberto e Alcide e Palmiro ci arriva, stancamente e fatte salve lodevoli eccezioni, un professore su 10. Tuttavia a celebrare doverosamente il Giorno del Ricordo ci accorrono doverosamente tutti. Come a dire beccatevi l’effetto ma ‘sti cazzi della causa. Però in compenso ci scanniamo ogni anno nel derby stracciarolo fra Ricordo e Memoria, che sono sinonimi in etica e vocabolario, ma contrari nella testa dei coglioni.
Nessun commento:
Posta un commento
Accettiamo critiche e non insulti.