IL BLOG DI SILVIO TEDESCHI

giovedì 11 febbraio 2021

A cosa ci ha portato la mistica del “tutto sommato”

di Giampiero Casoni


Dell’aggressione ad Eleonora Rea fa specie un fatto che esula dalla semplice constatazione di quanto sia becera ed illegale la sola mistica della sopraffazione fisica. E quel fatto risiede nella condizione professionale di Eleonora: avvocatessa. A dirla più papale nell’espletamento delle sue funzioni l’avvocatessa Rea è, o dovrebbe essere, un frammento di Costituzione che se va di buona lenalungo le sdrucciole scarpinate del Diritto. E che ci va con la serena consapevolezza che lungo quelle vie possono insorgere cimenti ma sempre severamente guatati da regole. E qui sta il sugo dell’intera faccenda, l’equivoco supremo che proprio non riusciamo a superare. E’ quello di una certa mistica grossolana per cui l’Avvocato, in molte capocce di flebile verve neurale, vede sedimentare in sé un po’ della piccineria etica del suo assistito. Piccineria ascritta in letteratura e spesso non ancora sostanziata in punto di Diritto. Uno squallore banalmente proclamato di cui egli, l’avvocato inteso nella fanghiglia mainstream, si fa teste, nuncio e sponsor. Ed in virtù del quale dovrebbe diventare obiettivo legittimo di malumori, rivalse, aggressioni e malmosto maturati durante una qualunque vicenda processuale o fascicolare. Ecco, è in quell’esatto istante che assieme al concetto di Diritto se ne va in vacca quello secondo e parallelo, quello per il quale l’avvocatura ha una funzione sociale di spaventosa delicatezza. Una carica di empatia mai blanda su cui un certo Calamandrei, non l’ultimo dei baraccati, qualche parola decise di spenderla. E lo fece segnando col lapis proprio quel momento temporale in cui, nell’esercizio della professione, difesa tecnica e moti del cuore vanno a sponsale. Ma Calamandrei scrisse e visse queste parole quando l’esercizio della professione forense si interfacciava con una società che aveva ben chiari i suoi modelli di riferimento. Una società che forse poteva arrivare a guardare con sospetto e finanche lontano livore un certo esercizio di notabilato legato alle professioni ‘alte’, ma che mai avrebbe messo in discussione una necessità assoluta e mirabilmente tiranna. Quella che a tutti venisse garantito il diritto ad affidare la perorazione delle proprie ragioni ad una persona ‘studiata’ per la bisogna e investita di un ruolo nevralgico. Il tutto con l’articolo 24 della Costituzione a fare da luce guida. E qui veniamo al guaio: e il guaio è una società imputtanita che ormai pretende non solo di derogare dalle regole (quello accadeva anche prima), ma che è arrivata al punto di scriverne di proprie con la matita grassa della sua ridicola autodeterminazione. Sono regole di pancia, non scritte, umorali e becereggianti, norme selvatiche per cui il possesso arbitrario della propria verità diventa grimaldello per la giustizia fai da te. E’ la giustizia con docenti catodici, con modelli televisivi rissaioli, con i social che spurgano via un dogma al giorno, con i meme cretini che danno bava subliminale ad ogni bestialità repressa e a volte attuata. E’ una docenza snaturata quella che porta oggi molte persone a considerare l’aggressione ad un'avvocatessa un semplice fatto di duello muscolare fra due tesi farcito da una veniale perdita di tramontana. E’ il concetto sacro di delega con la quale affidiamo le nostre istanze ai luoghi, alle persone ed ai protocolli della Giustizia che se ne sta andando beatamente in vacca. E allora succede che interdire fisicamente una toga sulle scale e farle un cazziatone maiuscolo o ricoprirla di contumelie dovrebbe passare per un semplice calo di pressione etica, tutto sommato emendabile perché figlio di una delle figure retoriche più velenose di questo tempo ammalato: quella del ‘tutto sommato’. Già, tutto sommato l’avvocatessa Rea non ha preso uno schiaffone, tutto sommato un po’ di nervosismo ci sta. E poi l’intramontabile “tutto sommato certe cose non dovrebbero succedere, però se succedono si deve sempre contestualizzare”. Non nascondiamo un profondo sollievo nel proclamare con solennità che no, contestualizzare un paio beatissimo di palle. Perché l’avvocatura ha una mission che contiene esattamente la cassazione morale di quello che ad essa oggi attenta: l’idea che giustizia e vendetta possano coincidere. E che nel nome di questa equivalenza cretina qualcuno possa vedere in un avvocato non un pezzetto di Costituzione che ti tende una mano, ma un bersaglio.

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